lunedì 28 febbraio 2011

The king’s speech (with a little help from his friend)

Mai vittoria di Oscar fu più sicura – e, aggiungerei, meritata – di quella che è toccata a Colin Firth (Il diario di Bridget Jones, Love actually, Un matrimonio all’inglese, A Christmas carol) per la sua magistrale interpretazione del Duca di York nell’ultimo film di Tom Hooper (Red Dust, Il maledetto United), Il discorso del re. Segni particolari: evidente balbuzie.

La vicenda è ormai nota ai più: nell’Inghilterra degli anni ’30 del ventesimo secolo regna Giorgio V. Alla sua morte, nel 1936, il suo erede legittimo in linea di successione, il primogenito Edoardo, regna a malapena per un anno, rinunciando al trono pur di sposare la donna amata, Wallis Simpson, non solo borghese, ma addirittura pluridivorziata. Spetta dunque al fratello Alberto prendere il suo posto sul trono d’Inghilterra. Ma, pur essendo molto precisa e attendibile sotto il profilo storico, la trama del film è interamente concentrata su un’altra dinamica, sul rapporto che si instaura tra Alberto e il suo logoterapista, Lionel Logue (interpretato da Geoffrey Rush, già in Munich, Elisabeth: the golden age, Shakespeare in love, Pirati dei Carabi), un australiano attore mancato dai metodi troppo poco ortodossi per un erede al trono. L’incontro tra i due avviene grazie all’interessamento della moglie del principe, Elisabeth Bowes-Lyon (interpretata da Helena Bonham Carter, già in Camera con vista, Big fish, Fight club, Harry Potter e il principe mezzo sangue), decisa a voler tentare il tutto per tutto per cercare una soluzione alla balbuzie del marito. Nonostante le iniziali rimostranze da parte del principe Alberto, grazie a un costante impegno Lionel riesce non solo a risolvere il suo problema, ma anche ad indagare sulle cause che lo scaturivano, diventando confidente oltre che terapeuta. Tra i due si instaura un rapporto di amicizia tale che – come si legge alla fine del film – lo stesso Alberto, ormai diventato re Giorgio VI, conferisce al suo logoterapista l’onorificenza di cavaliere del re che spetta a tutti coloro che abbiano prestato servigi al sovrano.

Il film è ben costruito, si lascia seguire con una certa facilità, nonostante la storia di per sé non troppo avvincente e, quantomeno, dall’esito già noto. La macchina da presa è evidentemente statica, non solo perché, a mio avviso, i movimenti di macchina sarebbero stati fuori luogo per un film del genere, ma anche per conferire una certa solennità alle riprese: infatti, soprattutto nelle scene in cui si svolge la terapia, la macchina è ferma e sono solo gli attori a muoversi, con gesti assolutamente buffi, goffi, che si sposano perfettamente con le filastrocche o gli scioglilingua che il principe era costretto a ripetere. Il movimento nell’ambito delle sedute di logopedia sembra quasi diventare una sorta di liberazione da una vita “ingessata” come può essere quella di un principe. A ciò si aggiunge la contrapposizione degli ambienti sociali dei due protagonisti e delle rispettive famiglie: una spartana sala dove avevano luogo le terapie e le stanze lussuose dei palazzi reali.

Ancora una volta Hollywood trae spunto dalle vicende della corona inglese, che hanno da sempre grande presa sul pubblico, per cercare di sbancare i botteghini. Almeno stavolta, però, il film si allontana dai soliti, stereotipati intrighi di palazzo per restituirci il ritratto di un uomo normale, con le sue fragilità, come potrebbe essere ognuno di noi.


Valeria

Luigi

mercoledì 12 gennaio 2011

Inception: sogno nel sogno


“Qual è il parassita più resistente? Un batterio? Un virus? Una tenia intestinale? Un’idea. Resistente, altamente contagiosa. Una volta che un’idea si è impossessata dal cervello è quasi impossibile sradicarla. Un’idea pienamente formata, pienamente compresa si avvinghia qui, da qualche parte.” Christopher Nolan inizia a costruire, da questo breve monologo, quello che probabilmente è stato il miglior film del 2010, almeno nel suo genere.
Lo script di “Inception” ha più di dieci anni: Nolan affascinato dal canovaccio di sceneggiatura si rese conto che il film per risultare di qualità necessitava di un budget estremamente elevato (il film è infatti arrivato a costare poco meno di duecento milioni di dollari) perciò decise di dedicarsi a progetti meno dispendiosi (“Memento”, “Insomnia”) ma nei quali l’influenza che lo script incompleto aveva avuto sul regista risulta alquanto evidente. Quando, circa alla metà degli anni 2000, Nolan pensò di riprendere in mano la sceneggiatura il cinema di genere era ormai alle prese con il grande successo suscitato dai film della trilogia “Matrix”. I punti di contatto tra le pellicole non sono molti, eppure il genere affrontato è simile e perciò il regista decise nuovamente di posporre il progetto “Inception”. Scelta a nostro avviso vincente, poiché ha dato modo a Nolan di utilizzare al meglio le innovazioni prodotte nel campo degli effetti speciali negli ultimi anni del decennio, e non ha permesso che il film venisse percepito dal pubblico come un’opera esclusivamente commerciale, girata per approfittare dell’ondata di popolarità portata dalla trilogia dei fratelli Wachowski. In realtà “Inception” si distacca nettamente sotto il profilo qualitativo da “Matrix” (che a sua volta è l’unico dei film della trilogia degno di essere ricordato). “Inception” nasce da una sceneggiatura migliore, è più realistico e verosimile pur essendo altrettanto visionario, le interpretazioni sono più intense e la scelta del cast è migliore.
Finalmente nel 2010, il film, dopo più di dieci anni di peripezie, riesce a prendere vita: il risultato è strabiliante.
(SPOILER)
Dom Cobb (Leonardo Di Caprio) è un estrattore, un uomo che si insinua nei sogni delle persone per rubarne le idee per conto di terzi. E’ il migliore nel suo lavoro, ma la sua abilità è minata dalla proiezione (prodotta dal suo inconscio) della defunta moglie Mal (Marion Cotillard), per il cui assassinio Dom è stato condannato ed è stato costretto a fuggire dagli Stati Uniti e a lasciare i propri figli. E’ la proiezione di Mal che fa fallire il lavoro che la Kobol Ing. commissiona a Cobb, cioè di estrarre informazioni dalla mente di Mr.Saito (Ken Watanabe), potentissimo uomo d’affari, ma sarà proprio Saito, particolarmente colpito dall’abilità di Cobb, ad offrire all’estrattore l’unica cosa che veramente desidera: la possibilità di tornare a casa. Dom dovrà riuscire a fare un innesto (in inglese inception, appunto) per convincere il figlio del rivale in affari di Saito, Robert Fischer (Cillian Murphy) a dividere l’impero economico del padre (Pete Postlethwaite). In cambio le potenti amicizie di Saito faranno cadere le accuse che costringono Cobb lontano da casa. Per fare ciò Cobb avrà bisogno dell’aiuto di un Manovratore, cioè il suo migliore amico Arthur (Joseph Gordon-Levitt), di un Falsario, il ladro Eams (Tom Hardy), del Chimico Yusuf (Dileep Rao) ed infine di un Architetto, Arianna (Ellen Page) che possa “progettare” i tre “livelli” di sonno attraverso cui la squadra dovrà muoversi per riuscire nel suo intento.
(FINE SPOILER)
Il ruolo di Michael Caine (interpreta il suocero di Cobb) è poco più che un cameo ma permette all’attore britannico di dimostrare come sempre quanto sia meritata la sua fama.
Inoltre questo film pregevole in tanti dei suoi aspetti ci diviene particolarmente caro poiché verrà ricordato, purtroppo, come una delle ultime interpretazioni di Pete Postlethwaite (non è sicuramente una casualità che il bravo attore inglese interpreti il piccolo ruolo di un malato terminale), deceduto qualche settimana dopo l’uscita del film nelle sale.
La regia è ovviamente di primo livello, movimenti di macchina frequenti ma mai inutili, il montaggio è serrato nei momenti più concitati e i piani sequenza più lunghi nei momenti di riflessione (che per un film del genere non sono affatto pochi). Nolan sembra fare scuola su come girare un “Blockbuster” di qualità, mantenendo elevato l’interesse del grande pubblico senza che però ne risenta lo stile registico che risulta sempre e comunque molto elegante. I dialoghi intelligenti e lineari permettono allo spettatore di godersi una trama che se non ostica si può definire quantomeno complicata, ed è ottima la scelta di ridurre al minimo le battute tipiche del kolossal d’azione (per intenderci le battute alla Bad Boys).
L’interpretazione di Leonardo Di Caprio è la ciliegina sulla torta, l’attore che dai primi passi, a nostro avviso mediocri, di “Titanic” e “La maschera di ferro”, ha iniziato un’ascesa verso l’olimpo dei migliori attori hollywoodiani della storia che non accenna a fermarsi; il sodalizio con Scorsese, le esperienze con Spielberg e Scott, ci restituiscono di film in film un attore sempre più completo, espressivo e di talento. L’unica nostra paura, dopo aver visto pellicole di grande qualità come “The Departed” “Blood Diamond” e “Nessuna Verità”, era che Leo rischiasse di chiudersi in un ruolo caratteristico che dava vita a personaggi, fatti rivivere sì in maniera egregia, ma con caratteristiche troppo simili che rischiavano di appiattire l’interpretazione dell’attore: l’eroe solo contro il mondo, pieno di nevrosi e insicurezze, diciamocelo, aveva un po’ stancato. Dom Cobb è tormentato, ma non come il nevrotico Billy Costigan, il suo è un tormento razionale privo delle fragilità del personaggio di Scorsese, e affronta sì un’evoluzione, una catarsi, ma si tratta di un cambiamento che avviene all’interno dell’animo del personaggio partendo da basi già insite nell’animo stesso, e che non ha nulla a che vedere con quello completo e repentino di Danny Archer in “Blood Diamond”. Infine, pur avendo un ruolo predominante all’interno della storia, Cobb ha accanto a sé amici e compagni (tutti interpretati da ottimi attori) che lo aiutano, volenti o nolenti, ad affrontare i suoi fantasmi e a riuscire nel suo intento. È un solitario ma non come e non quanto il Roger Ferris di “Nessuna verità”.
Per concludere: “Inception” è un film intelligente e appassionante, ha tutte le caratteristiche positive di un film d’azione eppure è profondo e lascia un messaggio, ha un ottima storia drammatica eppure non è mai angosciante; inoltre affronta in maniera originale il tema del sogno, un tema che ha sempre affascinato e rapito la mente umana. Quindi correte a vederlo. E se volete un consiglio guardatelo un paio di volte, lo apprezzerete a pieno.

Stefano P.

venerdì 13 agosto 2010

È festa! con la PFM

La Premiata Forneria Marconi canta De André (e non solo) in concerto a Terracina, 8 agosto 2010

Due ore e mezzo di concerto non te le aspetti più da nessuno, in tempi in cui bisogna stare attenti a non sforare il limite di decibel consentito e, soprattutto, in tempi in cui “a mezzanotte tutti a casa”. Ma la PFM, un po’ per “una pacifica disobbedienza civile”, un po’ perché – diciamolo – se lo può permettere, non solo riesce a cavarsela egregiamente sul palco, ma riesce fino all’ultimo a coinvolgere i propri fan, facendo aumentare le emozioni in gioco di pari passo con il ritmo delle proprie canzoni. Al suo ingresso sul palco, subito prende la parola Franz Di Cioccio, uno dei membri storici della band, al quale spettano i saluti di rito e la presentazione del concerto: un iniziale tributo all’amico Fabrizio De André, insieme al quale, negli anni ‘70, la PFM ha dato vita a uno dei sodalizi meglio riusciti della storia della musica italiana, e una seconda parte dedicata invece ai pezzi storici e cavalli di battaglia del gruppo. Dopo queste poche parole, si lascia subito lo spazio alla musica: escono dal silenzio tutti gli strumenti, uno alla volta, come se si stessero risvegliando da un lungo sonno. Tastiere, batteria, basso, violino, chitarra iniziano subito in grande con “Bocca di rosa”, “La guerra di Piero”, “Un giudice”, “Andrea”, canzoni che riescono a trascinare il pubblico sull’ondata di una gioiosa malinconia. Seguono altri brani, in cui invece viene fuori l’esperienza privata del poeta De André, come “Giugno ‘73”, “Amico fragile”, “La canzone di Marinella”. A questo punto del concerto, la PFM ci presenta il suo nuovo lavoro “A.D. 2010 - La Buona Novella - Opera Apocrifa da La Buona Novella di Fabrizio de Andrè” attraverso tre brani: “L'infanzia di Maria”, “Maria nella bottega d'un falegname” e “Il testamento di Tito” (quest’ultima, a mio parere, una delle canzoni più significative del repertorio di De André). Prima di concludere la prima parte del concerto c’è anche spazio per una canzone in dialetto sardo, che, come ricorda Franco Mussida, era, insieme a quello genovese, il dialetto più amato da De André. È lo stesso Mussida a cantare “Zirighiltaggia (lucertolaio)”, canzone che ricorda le più classiche tarante e pizziche e fa subito venir voglia di ballare. E continuando sullo stesso filone musicale, accompagnandosi con i tamburelli, Di Cioccio e Mussida cantano insieme “Volta la carta”.
Rimangono inevitabilmente fuori scaletta molti dei pezzi più famosi del cantautore genovese, ma è ora di lasciare il posto a un tripudio di suoni e di strumenti dei più disparati, in tipico stile PFM, in tipico stile rock progressive. Si inizia con “La luna nuova”. Franz Di Cioccio prende il microfono più spesso, adesso. Spiega cosa c’è dietro i testi che hanno scritto e soprattutto spiega i tempi in cui sono stati scritti. “Era un po’ tutto come è adesso”, dice. “Nel 1975 la gente non si accorgeva che il mondo stava cambiando, proprio come adesso. (…) Il mondo è diventato un grande cesso che gira intorno al proprio asse”. È ora di “Out of the Roundabout”, tratto dall’album “Chocolate Kings” (1975), che dà l’opportunità al chitarrista Franco Mussida di lanciarsi in un assolo da far venire i brividi. Le dita si muovono veloci tra le corde e sembra che, almeno per loro, il tempo non sia passato. A seguire, altre belle note con “La carrozza di Hans”.
È quasi mezzanotte e, rassegnati all’imminente fine del concerto, aspettiamo il brano di chiusura, che per i fan del gruppo non può che essere “Impressioni di settembre”. E invece, proprio quando nessuno se lo aspettava più, ecco che ritorna tra noi il Faber, sulle note del violino di Lucio Fabbri che attacca con l’inconfondibile intro de “Il pescatore”. Tra l’entusiasmo generale, Di Cioccio invita il pubblico a fare, d’ora in avanti, quello che desidera e la risposta non si fa attendere: in un attimo i più giovani (che inizialmente, mimetizzandosi tra gli altri, non sembravano neanche così tanti) corrono sotto il palco. Gli uomini della sicurezza tentano di fermarli, ma niente si può fare contro un folla così entusiasta. L’ultima mezz’ora di concerto è un continuo battere di mani, un perpetuo ondeggiare di braccia e un’incessante raffica di flash che accompagnano anche l’attesissima “Impressioni di settembre” (sebbene Mussida si fosse finto restio a suonarla in quanto “fuori stagione”). Evidentemente colpito dall’ondata di energia di un pubblico così elettrizzato, Franz Di Cioccio sparisce per qualche attimo dietro le quinte e ne riemerge tenendo ben stretta tra le mani la sua videocamera che rivolge immediatamente sotto di sé, a riprendere quello spettacolo: un pubblico urlante, sulle note di “È festa (celebration)”. A mezzanotte e mezzo, però, ci avviamo verso la conclusione: Franz Di Cioccio ci presenta la band non in termini di persone, ma in termini di dita: 60 dita, per la precisione. Le prime dieci dita pigiano tasti bianchi e neri e sono quelle di Gianluca Tagliavini; altre dieci dita, quelle di Franco Mussida, si fanno magistralmente strada tra le sei corde di una chitarra; altre dieci dita, quelle di Pietro Monterisi, stringono due bacchette di legno, che a loro volta battono sopra tamburi e piatti; altre dieci dita, appartenenti a Patrick Djivas, fanno cantare le quattro corde di un basso; le altre dieci, facenti capo a Lucio Fabbri, riproducono melodie sinuose al violino; e le ultime dieci dita, quelle di Franz Di Cioccio, fanno quello che rimane da fare: si dividono tra batteria (il loro primo amore), tamburelli e strumenti a percussione di ogni tipo, e, all’occorrenza, fanno volteggiare in aria l’asta del microfono per poi riprenderla al volo.

Valeria R.

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Una luce bianca intermittente illumina il palco con brevi stacchi d’oscurità. Si spegne. Sei ombre salgono sul palco. E in un esplosione di luce viola, Franz Di Cioccio ci inizia a raccontare cosa accadrà nelle quasi tre ore successive, ma le parole non rendono, perciò la chitarra di Franco Mussida inizia a dargli manforte, seguita in rapida successione dalle tastiere di Gianluca Tagliavini, dal superbo violino di Lucio Fabbri, cui si aggiunge il ritmico incalzante sottofondo della batteria di Pietro Monterisi e del basso dell’eccelso Patrick Djivas. Le prime note di “Bocca di rosa” mi folgorano, mi riportano ai miei dieci anni, un’ intera estate passata ad ascoltare quella canzone, con quell’arrangiamento, la prima canzone di Faber che abbia mai ascoltato, la porta attraverso cui è entrato nella mia vita, modificandola, facendo di me quello che sono oggi. E quella porta ora è spalancata. Spalancata da questi sei signori, tre dei quali più vecchi di mio padre, ma con un energia ed un vigore che i ventenni si sognano. Cazzo, questo è Rock! Rock puro, profondo, aggressivo, che ti smuove l’animo dalle fondamenta. A “Bocca di rosa” segue “La guerra di Piero”, e così via in un crescendo che ha dell’incredibile: ogni pezzo ci si aspetta che sia un po’ peggiore del precedente, non accade mai, accade anzi il contrario, ogni canzone è una perla, familiare ma splendida nella sua originalità. “Andrea”, “La canzone di Marinella”, “Zirighiltgghia”, “L’infanzia di Maria” (pezzo inedito per il gruppo, che fa parte di un recente ed interessante lavoro di riedizione dell’album “La Buona Novella”), “Il testamento di Tito” sono un alternarsi di momenti di concitato entusiasmo e pacato ma intenso trasporto. Sulla giga di “Volta la carta” la voglia di alzarsi e ballare si trattiene a stento (tanto che lo strumentale verrà replicato verso la fine del concerto, essendo il pubblico più libero di partecipare attivamente). Ma il vero stupore è arrivato con quelli che probabilmente per il più della platea erano i due pezzi meno conosciuti, ma che per me sono tra le canzoni più care del vecchio Faber: “Maria nella bottega del falegname” e, soprattutto, “Giugno ‘73”, la storia di questo amore passeggero - la terza donna della vita di Fabrizio, quella che nessuno ricorda mai - a me ha sempre colpito molto; in questa canzone io sento il rimpianto di un amore perduto, e la rassegnazione di fronte alla vita che scorre portando via con sé le persone che abbiamo amato e che, se anche non dimenticheremo mai, e non verremo mai da loro dimenticati, non rivedremo mai più, perché spesso è la vita che decide al posto nostro. A dir poco commovente. Con una bella versione dell’intimistica “Amico fragile” si chiude la prima parte del concerto, ed allora ecco la sorpresa! Il repertorio progressive targato P.F.M. si rivela egregiamente all’altezza di quello cantautoriale targato De Andrè. Pezzi come “È festa (Celebration)”, e soprattutto “Maestro della voce” sono state per me, che conoscevo La Premiata Forneria Marconi principalmente come gruppo strumentale, delle vere e proprie rivelazioni. Di certo non mi hanno sorpreso i virtuosismi musicali di gente del calibro di Lucio “Violino” Fabbri e di Patrick Djivas, che riesce a rendere un giro di basso più coinvolgente di un assolo di chitarra elettrica, ma vi posso assicurare che anche se aveste passato la vostra vita ascoltando i migliori musicisti del mondo non avreste potuto esimervi dal restare a bocca aperta (come è rimasto il sottoscritto) di fronte a ciò che Franco Mussida è riuscito a creare nell’assolo di “Out of the roundabout”.
Comunque dopo due ore buone di concerto, la P.F.M. decide di chiudere suonando “Il pescatore”. È il delirio: la gente coinvolta ed esaltata si lancia sotto il palco ma viene bloccata dagli addetti alla sicurezza, al che Di Cioccio urla di lasciarli passare; non fa in tempo a dirlo che dalla parte opposta della platea un altro gruppo si riversa come un’onda sotto il palco. Un concerto che era praticamente finito si rianima: Mussida rischia il linciaggio quando prova ad accennare la sua intenzione di non suonare “Impressioni di settembre”, pezzo che viene puntualmente e magistralmente eseguito dallo stesso Mussida con Di Cioccio che riprende il suo posto originale alla batteria, tra strumentali ed assoli il gruppo va avanti per un'altra quarantina di minuti. Il concerto finisce in un’ovazione generale alla presentazione dei singoli membri del gruppo e con la convinzione che se nessuno avesse staccato la spina a Di Cioccio, lui avrebbe potuto continuare per tutta la notte.
Insomma con una vecchia guardia così chi ha bisogno di giovani musicisti?!

Stefano P.



Libreria musicale:

Bocca di rosa
La guerra di Piero
Giugno '73
Il testamento di Tito
Il pescatore

E' festa (celebration)
Out of the roundabout
Maestro della voce
Impressioni di settembre

sabato 17 luglio 2010

Toy Story 3: verso l'infinito e oltre!

Quando, un paio di anni fa, venni a sapere che la Pixar aveva in cantiere un terzo episodio della serie Toy Story, devo ammettere che rimasi alquanto perplesso. I primi due film erano stati dei capisaldi della mia infanzia, erano entrambi ben fatti, e a modo loro avevano delineato una storia che sembrava conclusa. Che senso poteva avere un nuovo sequel, a undici anni di distanza dall’ultimo episodio? Visto che la serie di Toy Story è stata l’unica (finora) cui la Pixar abbia mai dedicato più di un film, mi venne il dubbio che il tutto potesse essere etichettato come una semplice operazione commerciale, volta a vendere merchandising e altre amenità simili. Beh, mi sbagliavo: Toy Story 3 è uno dei migliori seguiti che siano mai stati realizzati nella storia del cinema. E, soprattutto, è uno dei più necessari e sensati.

La trama del film comincia esattamente lì dove si interrompeva quella del secondo episodio. O meglio, si riaggancia ad essa facendoci capire, nel giro di poche scene, che anche nel mondo della finzione sono passati dieci anni. Andy, bambino nelle due precedenti pellicole, è oggi un diciassettenne in procinto di partire per il college, e viene sollecitato dalla madre a mettere in soffitta un po’ di roba vecchia. A causa di un’incomprensione, però, i suoi vecchi giocattoli finiscono dapprima in un secchio della spazzatura e poi, dopo una rocambolesca fuga, all’interno di un asilo, il Sunnyside. Qui entrano in contatto con una nuova, sterminata, comunità di giocattoli, guidata da orso di peluche rosa chiamato Lotso. Ben presto, i giocattoli di Andy si accorgeranno che la realtà dell’asilo è molto più oscura di quanto non appaia a prima vista.

Bastano pochi fotogrammi per riportare lo spettatore ai tempi del primo film. Del vecchio “cast” ormai sono sopravvissuti solo i personaggi principali: Woody e Buzz, ovviamente, e poi la cow-girl Jesse, il cavallo Bullseye, Mr. & Mrs. Potato, il dinosauro Rex, il cane a molla Slinky e il salvadanaio Hamm. Anche a distanza di anni, la caratterizzazione degli eroi di plastica funziona ancora a meraviglia: ognuno ha la sua personalità, le sue caratteristiche e uno stile ben definito. A questi si aggiunge una valanga di nuovi personaggi: alcuni di questi ben descritti (il già citato Lotso, Ken, i giocattoli della bambina Bonny), altri abbozzati soltanto di sfuggita (come la gang del cattivo). Anche Andy appare credibile nel suo passaggio da bambino ad adolescente, e a sottolineare il passaggio del tempo arrivano anche alcuni simpatici richiami alla realtà contemporanea (i giocattoli che cercano la propria quotazione su Ebay, il triceratopo che chatta, un simil-Google Maps…). L’atmosfera, insomma, è ben delineata e ci trasporta dritti nel cuore della storia.
Per di più non si notano forzature o elementi fuori posto, ogni cosa è in linea con il resto, tutto appare credibile. Così il terzo capitolo si rivela essere quasi necessario e addirittura fondamentale nell’economia della saga: fornisce una vera (e definitiva) conclusione a una vicenda che sembrava – ma solo apparentemente – già terminata. In tal senso sembra quasi che tutto fosse già delineato nella mente dei suoi creatori, anche se ovviamente non è così: ad averne, però, di sequel talmente ben fatti e congegnati!

La trama, pur ricca di colpi di scena e inaspettati cambi di fronte, è a dire il vero poco più che un pretesto. Alla Pixar non interessa questo aspetto delle proprie pellicole – e lo ha già dimostrato con le sue ultime opere. Quel che più colpisce in Toy Story 3 è la capacità degli autori di emozionare lo spettatore. Giocando in parte su quello che chiamerei “effetto saga” (in fondo è il capitolo conclusivo di una trilogia, e in questi casi i fan affezionati entrano in sala già propensi alla lacrimuccia), ma in parte anche sul proprio straordinario talento, gli artisti della Pixar hanno confezionato un prodotto meraviglioso e commovente. Mai come in questo film i giocattoli appaiono umani, con sentimenti e pensieri reali e credibili; per di più si trovano di fronte a scelte morali non indifferenti, che rendono i protagonisti veramente a tre dimensioni (anche senza l’ausilio degli appositi occhialini). La girandola di sentimenti che sin dalle prime sequenze attanaglia gli spettatori giunge al culmine in alcune scene madri che rimarranno giustamente nella memoria di tutti: le scene nella discarica (soprattutto quella – da Oscar – all’interno dell’inceneritore) e gli ultimi minuti di film, dove è quasi impossibile trattenere le lacrime (avete notato che, nell’ultimissima scena, le nuvole in cielo sono uguali a quelle della camera di Andy?). Sotto il profilo emotivo, questo film – al pari di tutte le altre opere Pixar – ha molto da insegnare al resto della produzione cinematografica mondiale, e meriterebbe riconoscimenti maggiori del premio simpatia che racimola per il fatto di essere un “semplice” cartone animato.
Il film dà anche lo spunto per alcune riflessioni non scontate. C’è una bella vena di malinconia che pervade tutto il film, e che si sposa perfettamente con il tema principale del film: il passare del tempo. Non sono soltanto gli umani a cambiare (fisicamente e psicologicamente), ma anche gli stessi giocattoli: per chi – come quelli della mia generazione – è cresciuto ed è stato bambino con questi personaggi, fa un certo effetto constatare che molti dei giocattoli storici di Andy (la lavagnetta magica, l’auto radiocomandata, Bo la bambola di porcellana) non ci sono più, e che le mitiche assemblee indette da Woody si sono ormai ridotte ai minimi termini. Ed anche gli stessi protagonisti vivono in una sorta di clima da ultimi sopravvissuti: la maggior parte appare più disillusa rispetto al passato, e di gran lunga meno ottimista. Sono elementi che possono sembrare di secondo piano, ma che in realtà contribuiscono enormemente all’atmosfera del film.

La capacità di colpire al cuore le persone è sicuramente fuori dal comune, però, da sola, non basterebbe a fare di Toy Story 3 un capolavoro. Stiamo pur sempre parlando di un film, e in quanto tale deve anche essere gradevole da guardare: ma, anche qui, la Pixar fa nuovamente centro. Se, come è successo a me, vi è capitato di rivedere recentemente i primi due episodi della trilogia, guardando questa pellicola vi renderete subito conto dei passi da gigante che sono stati fatti, nell’ultima decade, sotto il profilo tecnico. Il primo Toy Story (datato 1995) fu il primo film nella storia ad essere interamente realizzato in digitale, e fece gridare al miracolo; il secondo (1999) surclassò il capostipite in ambito grafico, con una ricchezza di dettagli che mi sbalordì. Beh, il capitolo finale (con un budget record di 200 milioni di dollari) è una vera apoteosi di effetti digitali assolutamente perfetti. Dai dettagli (la sabbia sul corpo di Mr. Potato) all’interazione fra i vari personaggi, non si intravede neanche l’ombra di una sbavatura. A ciò va aggiunto il design dei nuovi protagonisti, assolutamente ben delineato: penso alla banda dei cattivi, ruvidi e malvagi quanto basta, o allo shakespeariano riccio di peluche.
Anche la regia ci mette del suo. Ero perplesso sulla scelta di Lee Unkrich, regista esordiente ma con esperienza di co-regista in altre tre pellicole Pixar: e invece il buon Lee non sbaglia un colpo, destreggiandosi fra acrobazie, carrellate e inseguimenti. Spettacolare la sequenza che apre il film – una surreale fantasia di Andy che vede per protagonisti i suoi giocattoli – che ha davvero poco da invidiare ai più blasonati film d’avventura. La sceneggiatura (di Michael Arndt, premio Oscar per Little Miss Sunshine) non dà un attimo di tregua: gli eventi si susseguono ad un ritmo indiavolato – specialmente nella seconda parte, davvero ricca d’azione – travolgendo lo spettatore in un vortice di tensione. Le musiche (opera di Randy Newman, con le canzoni cantate in italiano come sempre da Riccardo Cocciante) sono poi una gioia per le orecchie: qui c’è un abisso fra questa pellicola e le due precedenti, in verità un po’ piatte in quanto a colonna sonora; stavolta invece il registro musicale si adatta perfettamente alle situazioni, andando dal malinconico all’incalzante, e donando una vera marcia in più agli episodi.
Due parole pure sul doppiaggio italiano. I personaggi principali sono doppiati dagli attori storici della serie. Su tutti, ovviamente, dominano Fabrizio Frizzi (Woody) e Massimo Dapporto (Buzz): sarà che li ho sempre sentiti con queste voci, ma per quanto mi riguarda questi due personaggi non hanno ragione di esistere senza i loro due ottimi doppiatori. Diversi poi, secondo la consuetudine dei cartoon localizzati in Italia, i vip che hanno prestato la propria voce: si riconoscono Fabio De Luigi (Ken), Claudia Gerini (Barbie), Gerry Scotti (nel ruolo del telefono giocattolo), mentre meno intuitivo è Giorgio Faletti nel ruolo del clown. Nel complesso il doppiaggio è di ottimo livello, trascinato anche dagli straordinari caratteristi che danno voce ai giocattoli storici di Andy.

Come da tradizione Pixar, il film è preceduto da un cortometraggio, intitolato Quando il giorno incontra la notte. Anche questo è un piccolo gioiello: un mix di animazione tradizionale e tecnica digitale, in cui è messo in scena un incontro / scontro tra due buffi personaggi rappresentanti il giorno e la notte. Molto difficile da descrivere, va visto per capirlo: in ogni caso, anche volendo trovare un difetto qui, l’impresa è ardua.
O forse no. Ecco, a ben vedere qualcosa di storto c’è in questo film: si tratta della tecnologia 3D ormai dilagante (il film è uscito anche in un normale 2D, ma ormai trovare un cinema che non si sia attrezzato con le tre dimensioni è quasi impossibile). Davvero non riesco a capire che apporto possa dare questa tecnologia a un film del genere: a parte un paio di scene (in cui, come al solito, c’è un movimento dal fondo verso lo schermo, o viceversa), la restante parte della pellicola è pressoché priva di elementi tridimensionali degni di nota. In compenso era tridimensionale il prezzo del biglietto… Capisco che ormai tutti i cartoni siano “obbligati” ad uscire in 3D, ma la Pixar aveva davvero bisogno di questo bieco stratagemma per acchiappare il pubblico?

Concludendo, Toy Story 3 è un film bellissimo ed emozionante. Dando per scontato che abbiate visto i due precedenti capitoli, vi consiglio caldamente di andare a vederlo: difficilmente troverete in giro un film che vi faccia ridere, piangere, emozionare e riflettere come questo. A mio parere, è anche uno dei migliori film di questo 2010 cinematografico. La Pixar continua a non sbagliare un colpo, ma la attendo al varco l’anno prossimo con l’annunciato Cars 2 (ecco, magari quella sarà solo un’operazione commerciale). Toy Story 3 è un gran film, tanto sotto il profilo tecnico quanto sotto quello contenutistico. La sua unica pecca – ma in realtà non è neanche sua – è l’utilizzo del sempre meno convincente 3D. Che però un vantaggio lo porta: dietro a quei maledetti occhialetti, nessuno potrà vedervi piangere lacrime di commozione su uno dei finali più emozionanti che abbiate mai visto.

TOY STORY 3 - LA GRANDE FUGA
Diretto da Lee Unkrich
Voto: **** su ****

Luigi
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